LA MUSICA NEL SUD-EST RURALE: L'HILLBILLY APPALACHIANO.

Per chi, come me, non fosse mai stanco di approfondire la conoscenza del folklore americano, c'è un nuovo post di Marta, sempre di alto spessore, che apre una finestra sulla storia del sud-est rurale e della old time music. Che l'hillbilly sia con voi!   
Martina 



                                                                                                   
“I hear America singing, the varied carols I hear,
Those of mechanics, each one singing his as it should be blithe and strong,
The mason singing his as he makes ready for work, or leaves off work,
[...]The delicious singing of the mother, or of the young wife at work, or of the girl sewing or washing,
Each singing what belongs to him or her and to none else,
The day what belongs to the day—at night the party of young fellows, robust, friendly,
Singing with open mouths their strong melodious songs.”
(Walt Whitman)

Entrando in un negozio di vinili, mi è stato consigliato l'ascolto dell'album di Moon Mullican“Sings His All-Time Greatest Hits”, del 1955; è così che ho avuto il mio primo approccio musicale con il “King Of The Hillbilly Piano Players” , il pianista originario del Texas, uno dei più grandi nella storia della musica country, che ispirò Jerry Lee Lewis nel suo modo di cantare e suonare. Dopo averlo acquistato, adorato in particolar modo la sua “Foggy River” , ed aver fatto delle piccole ricerche su questo artista da noi poco conosciuto, ciò che ha catturato la mia attenzione è stato proprio il termine hillbilly. Come ricorda il Prof. Alessandro Portelli nella prefazione che scrisse per“Old-Time, Hard Times”, di De Simone, lo stesso Lewis cantava che il rock è “hillbilly music come to town”, ovvero la musica dei montanari e dei campagnoli arrivata anche in città. Se si cerca la definizione esatta di hillbilly, ciò che emerge è un passato intriso di stereotipi propri dell'America bianca, che assunsero una categorizzazione definitiva dopo la Grande Depressione del 1929, periodo in cui molti abitanti del Sud-Est degli Appalachi si spostarono verso le grandi città industriali del Midwest, in cerca di fortuna. Le emigrazioni ebbero come conseguenza la diffusione della musica country presso le popolazioni rurali ed urbane, del Tennessee, Texas, Oklahoma e California. Prima che “country” venisse applicato anche alla musica di quell'area appalachiana, veniva usato il termine “hillbilly”.

“Noi ci chiamiamo hillbillies, è un nome che non è un marchio, un nome che spetta a chiunque sia nato sulle colline. Per generazioni, le montagne ci hanno tenuti isolati [...]”





Per comprendere però al meglio la nascita e l'evoluzione della musica rurale del Sud-Est degli antichissimi Monti Appalachi, non posso che iniziare dalle origini, cercando di evidenziarne brevemente gli sviluppi più rilevanti.
Nel corso del Settecento, la colonizzazione degli Scotch-Irish giunse fino all'area dei Southern Appalachians, tra Pennsylvania, Virginia, North e South Carolina, Kentucky. Fino al Trattato di Parigi del 1783, quando la Francia cedette agli Stati Uniti la valle del Mississippi, la regione degli Appalachi venne considerata di frontiera; è proprio lì che nacque quell'idea di uguaglianza e di giustizia, senza discriminazioni sociali, ancora assai vive e sentite nel Vecchio Mondo. Il bianco povero (hillbilly), il contadino ed allevatore protestante scoto-irlandese, divenuto americano, che contribuì enormemente all'espansione ed alla costruzione degli Stati Uniti, scelse una vita libera, un isolamento secolare nelle vallate e nei boschi appalachiani, portando con sé una musica rurale ancora legata alla tradizione orale anglo-scoto-irlandese. L'etnomusicologo inglese Cecil Sharp, percorse la regione appalachiana tra il 1916 ed il 1918, cercando tra le piccole comunità formatesi nel tempo nelle montagne del Kentucky, Tennessee, Virginia e North Carolina, tracce delle antiche ballate, jigs, play-party games, quasi del tutto scomparse in Europa. Fu il primo a raccogliere il suo lavoro di ricerca sul campo, pubblicando “English folk-songs from the Southern Appalachians”, riprendendo la monumentale opera di Child “The English and Scottish Popular Ballads” (1882-1898). Sharp notò che non vi era un accompagnamento strumentale nell'esecuzione delle radicate ballads, se si esclude l'uso del dulcimer in alcune zone circoscritte, poiché avrebbe potuto distogliere l'attenzione dal testo: l'imprescindibile rapporto tra interpretazione e testo era il fulcro della ballata popolare, il cui intento era quello di raccontare un evento socialmente rilevante, una tragedia d'amore, una morte familiare, un omicidio. L'isolamento e la scarsa industrializzazione delle zone del Sud-Est, fecero sì che gli abitanti delle montagne e delle pianure circostanti, rimanessero anche culturalmente separati dal resto degli Stati Uniti. La musica rimase, dunque, profondamente simile a quella dei Paesi di origine, ma vennero apportate delle modifiche: il colono anglo-scoto-irlandese fece una cernita delle ballate tradizionali, in base ai nuovi usi e costumi della frontiera, ma anche a causa del rigido puritanesimo. Molti brani che contenevano elementi fantastici, leggendari, mitologici, vennero esclusi. Le Child Ballads più diffuse sugli Appalachi agli inizi del '900, che Sharp studiò e raccolse, differiscono spesso dai testi delle versioni angloscozzesi, come ad esempio “Lord Thomas and Fair Annet”, nota in America come “Lord Thomas and Fair Ellender”. Fino alle prime registrazioni di musica rurale appalachiana degli anni Venti del XX secolo, la musica vocale eseguita era costituita principalmente, oltre che dalle ballate, da inni religiosi, a testimonianza dell'atteggiamento conservatore di quelle popolazioni del Sud-Est. Le famiglie numerose, di stampo patriarcale, si riunivano attorno al focolare domestico, in Chiesa; danzavano sull'aia e nel granaio e cantavano la vita semplice, tramandata di generazione in generazione, dedita al duro lavoro, non per accumulare ricchezza,  ma per  assicurarsi solamente il proprio mantenimento. Vi era una forte solidarietà sociale tra le varie comunità, vicine ma mal collegate, separate spesso solo da una collina boscosa, che poteva comportare una varietà differente di abitudini. Ciò che le accomunava, però, era sicuramente il rifiuto del capitalismo e della modernità, di una politica governativa autoritaria, che temevano potessero allontanarle  dalla solidità dei rapporti tra individui, faticosamente mantenuta per tutto il corso del XIX secolo, e dalle tradizioni del passato.

“Sometimes it seemed that work was the only certainty , the only lasting truth in a human world of fitful change. Work and the mountains remained”.
(Così scrisse Wilma Dykeman, in uno dei suoi saggi sulla vita e la gente degli Appalachi).




Fino alla metà del XIX secolo, gli unici strumenti musicali utilizzati nei Southern Appalachians erano il fiddle ed il dulcimer. Sharp parlò della musica per fiddle come della sola musica strumentale eseguita nell'area, ma bisogna sottolineare che la sua ricerca si limitò alle zone più interne ed isolate, il cuore delle ballate anglo-scoto-irlandesi. A cavallo tra '800 e '900, cominciarono a nascere e svilupparsi le string bands e gli Appalachi  ne divennero la culla: composte maggiormente da banjo e fiddle, di chiara derivazione Blackface e Minstrel, il sound subì contaminazioni con la musica degli afroamericani e, inevitabilmente, con la  popular music anglo-scoto-irlandese. Il banjo, che forniva la giusta base ritmica, dunque, passò dagli afroamericani, ai Minstrels, agli hillbillies; il fiddle, di origine europea, veniva usato, oltre che come accompagnamento di balli rurali, anche per il canto e per eseguire fiddle-tunes. Il duo banjo-fiddle rimase rigorosamente modale fino all'introduzione, nelle Southern Mountains, della chitarra, che produsse una decisiva innovazione nelle mountain songs: progressivo abbandono della musica modale, stili tecnici come il finger-picking. Le string bands, inoltre, si diversificarono, anche a causa dell'aggiunta del mandolino, autoharp, ukulele ed, ovviamente, del dulcimer appalachiano.






                                                  (Foto di una tipica string band rurale)

La musica restò legata a quella inglese, sia nella struttura, che nel linguaggio, le ballate tradizionali rappresentavano, inoltre, una continuità con il passato. Ma negli anni Venti del XX secolo qualcosa iniziò a cambiare: con il boom della radio e delle registrazioni, la musica degli Appalachi cominciò a circolare e ad evolversi verso fenomeni più commerciali. Molti giovani hillbillies trapiantati in città, catapultati nella piena urbanizzazione, tra gli anni Venti e Trenta, avvertirono la nostalgia e la solitudine degli old times, che divennero temi usuali nelle canzoni di campagna. L'interesse discografico e radiofonico per la musica rurale del Sud, portò ad una seria riscoperta  e ad una diffusione che fece crescere positivamente il panorama musicale della country music. La “Victor” di New York fu la prima etichetta a registrare degli autentici musicisti hillbilly, in particolare, nel 1922, esordì il duo di Henry Gilliland, proveniente dalla Virginia, e A.C. Robertson, dal Texas, con “Arkansas Traveller” , “Turkey In The Straw” e “Sally Goodin'”. Finalmente la country music trovava il successo tra i suoi ascoltatori che, con malinconia, ricordavano i good times, e che volevano riscoprire l'old-time feeling. Se inizialmente le registrazioni discografiche erano destinate ai solisti di fiddle e cantanti, l'attenzione si spostò, nel pieno degli anni Venti, anche verso le string bands, spesso formate da componenti della stessa famiglia, che rassicuravano il pubblico con le immagini di calore ed unità familiare. Il punto di partenza dell'industria hillbilly , comunque, fu il 1925, con lo straordinario numero di copie vendute del disco di Fiddlin' John Carson: da lì ci fu un'autentica esplosione che aprì il mercato americano alla musica appalachiana, cosa che però rischiò di falsarne alcuni aspetti. Innanzitutto, il materiale stampato all'epoca, venne catalogato con nomi mascherati, per renderli più appetibili al pubblico, come “songs of the hill and plains”; poi, essendo ormai in atto la corsa alla popolarità, qualsiasi musicista bianco del Sud venne ingaggiato, senza far caso alla genuinità del prodotto ed alla reale e profonda conoscenza delle vecchie canzoni. Fu proprio nel 1925 che vennero coniati i termini Old-Time Music e Hill-Billy  per indicare la country music del Sud-Est, da parte delle case discografiche, quando una band si presentò così: “Non siamo altro che un gruppo di hillbillies della Virginia e del North Carolina”. La commercializzazione, dunque, se da una parte diede modo, di emergere ed espandersi, dall'altra depauperò la Old-Time Music, manipolandola e rendendola meramente modaiola, senza enfasi e sentimento, limitandola spesso alla sola chitarra.
Negli anni Trenta, fu proprio nell'area degli Appalachi che si delineò la Old-Time Music, che riproduceva lo stile delle string bands degli anni Venti (rimaste a loro volta fedeli in parte alla musica da ballo, come reels e breakdowns) , e quella che sfociò, successivamente con Bill Monroe, nel Bluegrass. Anche le voci e le armonie risentirono dei desideri del pubblico, rimase la mountain harmony e la tipica impostazione alta e nasale. Tra le string bands più famose e di maggior popolarità radiofonica presso le emittenti locali appalachiane, devo citare i “Crazy Mountaineers”. Band di pre-bluegrass iniziarono, nel frattempo, a dominare la Opry dei primi anni: i “Ramblers” di Charlie Poole suonavano una “Mountain Music” molto vicina a quella che diventerà propria del Bluegrass negli anni Quaranta. Il gruppo che rappresentò, invece, la transizione dalla Old-Time Music al Bluegrass, fu quello di J.E.Mainer, con un repertorio costituito da hoedowns, dal ritmo serrato. Il banjo non era più uno strumento di mero accompagnamento: venne elaborato lo stile three-fingers, che esplose grazie ad Earl Scruggs. Inoltre, nacquero anche vari duo di fratelli con  mandolino e chitarra, rendendo il primo uno strumento fondamentale, vocalmente  caratterizzati da armonie della church music, come i fratelli Monroe ed il loro contributo nell'evoluzione della Mountain Music. Bill ed Earl Bolick (del North Carolina), invece, proseguirono da hillbilly conservatori della Old-Time Music, fino al 1951, descrivendo situazioni rurali pervase da tristezza e rimpianto.



La radio, finalmente giunta nelle piccole comunità appalachiane, soprattutto quelle più isolate, fece sì che i veri hillbillies, rimasti solidamente nelle loro modeste case di legno, scoprirono che la loro musica veniva etichettata nel resto degli Stati Uniti, proprio come Hillbilly Music.
Ciò che ignoravano però, era che nei decenni precedenti hillbilly fosse un termine già usato per definire i montanari grezzi, cafoni, ignoranti, iracondi e grandi bevitori di whiskey, con intento denigratorio e discriminatorio. Bisogna giustamente sottolineare che prima dell'avvento della radio, non erano a conoscenza di questo feroce stereotipo. Criticati per il loro stile di vita, ancora oggi sono in preda ai pregiudizi, diffusi soprattutto per lo scarso interesse nei confronti del benessere e della comodità. Etimologicamente, hillbilly deriva da “hill” (collina) e “billy-goat” (una specie di capre della zona appalachiana), dunque “quei caproni che vivono nelle colline”. Nel 1900 sul The New York Journal, apparve per la prima volta il clichè del cittadino bianco libero, misero, ubriaco, senza vincoli, che spara quando gli capita col suo fucile. In “Un tranquillo weekend di paura”, cult del 1972, ambientato nei boschi degli Appalachi, nei pressi del  fiume Cahulawassee, Mariano De Simone, nel suo saggio “La musica country”, definisce la scena del ragazzino autistico che suona il banjo in modo impeccabile, dal pesante contenuto razzistico, in quanto tende a mostrare al pubblico, oltre alle conseguenze dei matrimoni tra i montanari, accusati di essere anche incestuosi, la tensione, tramite battute squalificanti, realmente esistente tra il cittadino moderno e quello ancorato alla vecchia America. Hillbilly però, non ha solo una valenza dispregiativa: secondo gli studiosi, il termine descrive anche positivamente individui indipendenti e autosufficienti che resistono alla modernizzazione della società, anche se economicamente depressi.



Il rapido sviluppo dell'industria del secondo dopoguerra, che per tutto l'Ottocento non le intaccò, cominciò a modificare il modo di vivere anche delle più ferree comunità, con una conseguente disumanizzazione dei rapporti sociali, difficile da accettare. Gli Appalachi si stavano trasformando: oltre alla radio, arrivarono le ferrovie, fabbriche tessili, industrie estrattive. L'impatto della tecnologia anche sull'ambiente circostante, incontaminato, influì sulle canzoni, che cominciarono a denunciarne i rischi. Le canzoni di protesta furono il mezzo ideale: il Sud-Est si sentiva sfruttato, in condizioni critiche di miseria, sottopagato, soprattutto nelle aree orientali del Kentucky, nelle miniere di carbone di Harlan, nelle fabbriche del North e South Carolina. Nuovi arrangiamenti e nuove canzoni presero lentamente il posto delle antiche ballate della tradizione.

“How can you keep on moving, unless you migrate too?
They tell you to keep on moving, but migrate you must not do.”
(“Keep Moving”)

Le ballads del Sud-Est, che esprimevano una determinata caratterizzazione morale ed una enunciazione dei valori dei suoi abitanti, dovettero aspettare Jean Ritchie, “The Mother of Folk”, nata a Viper, in Kentucky,  per tornare alla loro anima originaria.         


                  

Jean Ritchie con il suo dulcimer appalachiano, fine anni '40



  L'etnomusicologo Alan Lomax così definì la famiglia di Jean Ritchie:

Erano persone tranquille e premurose, che si tramandavano ballate, le famiglie erano numerose ed educavano rigidamente i loro figli. La nonna di Jean era stata una delle prime motrici della Chiesa Battista e da lei provenivano tutte le melodie tradizionali degli inni. Lo zio Jason era un avvocato, che ricordava le grandi ballate come Lord Barnard. Il padre di Jean insegnò a scuola, stampò un giornale, coltivò la terra e così mandò dieci dei suoi quattordici figli al college.”  

Nel 1948, la giovane ragazza del Kentucky, dalla dolce voce sopranile, che soleva cantare accompagnata solo dal suo prezioso dulcimer appalachiano, dal suono morbido ed etereo, condivise il palco allo Spring Fever Hootenanny con Woody Guthrie, Betty Sanders, registrò brani di popular music per le ricerche etnografiche di Alan Lomax, collaborò con Pete Seeger e Oscar Brand, fino ad esordire pubblicamente, nel 1952, con il suo primo album in studio “Jean Ritchie Sings” e nel 1957 con “Songs of Her Kentucky Mountain Family “, di cui la mia traccia preferita è “Little Cory”.
A Jean Ritchie si deve il merito di aver ridato purezza alle canzoni che aveva imparato sin da bambina, in famiglia, mantenendo gli elementi propri delle folk songs appalachiane della sua comunità.  Ma non solo, fu anche una prolifica cantautrice, sentì anche lei di dover esprimere i suoi ideali politici e sociali nelle canzoni di protesta, come “Black Waters”, sugli effetti dell'estrazione mineraria del Kentucky, e The L&N Don't Stop HereAnymore”, sulla soppressione, negli anni '50, di una fermata del treno che collegava Louisville a Nashville, in una piccola cittadina della regione montagnosa, con il conseguente ritorno all'isolamento.

“For I was born and raised at the mouth of the Hazard Holler,
Where the coal cars rolled and rumbled past my door
But now they stand in a rusty row of all empties
'Cause the L&N don't stop here anymore.”







Negli anni Cinquanta, con la nascita del nuovo sound di Nashville e con la standardizzazione della country music, impostata sulla steel-guitar elettrica e sul ritmo dell'honky-tonk, il termine hillbilly lentamente scomparve, lasciando il campo a “country & western”, coniato nel 1949 dal “Billboard”. Molte ballads, invece, dell'antica tradizione popolare degli Scotch-Irish del Sud-Est rurale, grazie anche e soprattutto all'opera di fedele custodia di Jean Ritchie, ebbero una gloriosa riscoperta negli anni Sessanta, con il second folk revival. Bob Dylan si ispirò nel comporre la sua celebre ed apocalitticaA Hard Rain's A-Gonna Fall” alla ballata scozzese “Lord Randal” (Child #12), le cui tra l'altro prime documentazioni si trovano proprio in Italia su un broadside del 1629, con il nome de “L'Avvelenato”; mentre il capolavoro “Girl from the North Country”, è chiaramente ispirato a “Scarborough Fair”, antica ballata anglo-scozzese, dalla datazione incerta.
Oggi comunque, si preferisce generalmente indicare solo con Old-Time Music la musica tradizionale degli Appalachi, frutto della fusione, anche sociale, di: popular music anglo-scoto-irlandese, tradizione rurale che incontrò la musica afroamericana e la dura realtà urbana dell'America industrializzata.
Se volete farvi cullare dal sound appalachiano e tornare indietro nel tempo, respirare l'atmosfera pura e genuina che permea ogni brano, oltre ai bellissimi album di Jean Ritchie, non posso che consigliarvi l'ascolto di “Songs from the mountain”, di Dirk Powell, Tim O'Brien e John Hermann, con le più famose mountain songs magnificamente riarrangiate ed eseguite.
Mi sembra doveroso concludere con un mio particolare omaggio a John Prine, celebre cantautore country folk originario del Kentucky, attivista per la preservazione del prezioso territorio ambientale degli Appalachi, recentemente scomparso a causa del Covid, condividendo con voi alcune strofe di “Paradise”, contenuta nel suo primo LP del 1971, per l'Atlantic Records. La canzone, scritta per suo padre, tratta dell'impatto devastante dell'estrazione di carbone per le miniere, per cui gli strati superiori del suolo vengono fatti esplodere, danneggiando irrimediabilmente il loro “Paradiso”.

“When I was a child my family would travel
Down to Western Kentucky where my parents were born
And there's a backwards old town that's often remembered
So many times that my memories are worn.
And daddy won't you take me back to Muhlenberg County
Down by the Green River where Paradise lay
Well, I'm sorry my son, but you're too late in asking
Mister Peabody's coal train has hauled it away”

Marta D'Ambrosio



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