Emily in Paris: ci sei o ci fai?

Io lavoro in smart working da 4 anni ormai e Bernardo non è pressoché mai a pranzo a casa, per cui per tenermi compagnia durante l'ora di pausa di solito mi piace svagarmi guardando una o due puntate di una serie su Netflix. 

Di recente, Nicola - mio caro amico nonché spacciatore di Netflix-consigli - mi ha chiesto: "l'hai vista Emily in Paris?" guarda caso proprio il giorno prima avevo visto un paio di stories su Instagram di gente che guardava la suddetta serie, per cui l'ho iniziata mentre pelavo delle carote e facevo cuocere del farro (gnam gnam) e, una puntata via l'altra in una specie di binge-watching controllato, l'ho finita.

Lily Collins alias Emily
(fonte Google immagini)

Che dire... Già al termine della prima puntata ho scritto a Nic: "Ma è orribile" e la sua risposta è stata: "Lo so".

Per dare un contesto un po' più ampio a questo mio impietoso giudizio devo fare un accenno alla trama: Emily è una giovane americana che lavora nel marketing e che, per una serie di motivi veramente al limite del ridicolo, finisce per trasferirsi da un giorno all'altro a Parigi per "portare lo sguardo americano" nella succursale francese della sua azienda. Uno dei punti cardine della serie è il fatto che codesta figliola non parli nemmeno una parola di francese e che quindi venga brutalmente derisa e sbeffeggiata da tutti i colleghi e dalle persone che incontra.

Lucas Bravo alias chef Gabriel
(fonte Google immagini)
Da tutti tranne che dal suo vicino di casa che OVVIAMENTE è un figone (c'è da ammettere che Lucas Bravo è una delle poche cose belle della serie), che la aiuterà a gestire la sua nuova vita nella Ville Lumière. 
Dopodichè la serie si svolge tutta intorno alle avventure lavorative, sociali e amorose della giovine in un inciampo dopo l'altro di clichés triti e decisamente fuori moda. 

Suonerà ridondante, ma forse non tutti sanno che Laura, Martina ed io ci siamo conosciute proprio a Parigi, città in cui abbiamo vissuto per un annetto studiando. Per cui, non vi nascondo che non mi perdo tendenzialmente neanche un film o una serie tv ambientata lì: è così bello vedere posti in cui si è lasciato un pezzo del proprio cuore e ripensare a quando si è passati di lì per la prima volta o un bel ricordo legato a quel luogo. Ecco: Emily in Paris è riuscita a rendere fastidiosa anche la vista di Parigi. Non so se rendo l'idea.

Credo di non esagerare nel dire che questa serie tv è una gara di stereotipi veramente mal riusciti e che dall'autore di Sex and the City mi sarei aspettata ben altro. Volendo trovare un aspetto positivo oltre al co-protagonista mi sentirei di apprezzare la strizzata d'occhio all'uso di sensi quali il gusto e l'olfatto, è una commedia mediocre che almeno incita alla bellezza e allo sviluppo dei sensi in una Parigi che purtroppo non convince chi la conosce davvero.

Gara di luoghi comuni
(fonte Google immagini)
Il dubbio ora però sorge spontaneo: 

Oscar Wilde scrisse "C'è solo una cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé". Ormai questa frase è diventata il motto di tutti i marketers squali che l'hanno fatta propria per giustificare i loro "successi". Guarda caso, l'ambiente lavorativo in cui si sviluppa la serie è proprio quello pubblicitario. Per cui il dubbio è: "Emily in Paris" ci è o ci fa?  

In realtà alla fine poco importa: l'unica cosa che mi auguro è che non venga realizzata una seconda stagione e che i soldi delle case di produzione vengano investiti in qualcosa di meglio (sì, anche solo per avere compagnia durante il pranzo infrasettimanale). 

Voto: 1/10

Federica Farassini

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