Salvo una componente sabauda (La cara Fetch, che pur di accesa romanità è nell'animo) le penne di questo blog hanno tutte una collocazione capitolina. Con grande piacere, quindi, introduco il nuovo post di Marta D'Ambrosio - ospite ormai noto e sempre gradito - incentrato sulla Roma "popolare".
Viva il volgo, viva il fontanone (e forza Roma). Martina
PREMESSA:
Con la morte di Gigi Proietti è stato spesso usato, negli articoli trovati girando sul web, il termine
“romanità”, legato ad un determinato modo di essere, che richiama ancora oggi la tradizione popolare, incarnata da illustri esponenti come Gabriella Ferri, Nino Manfredi, Lando Fiorini, Ettore Petrolini, giusto per nominarne alcuni.
Ho passeggiato anche io, così, lungo il tortuoso viale dei ricordi. Mio nonno materno Antonio, detto Tonino, quando ero piccola mi cantava spesso “Barcarolo romano” e si commuoveva, pensando a quell'amore tragicamente finito nelle torbide acque del Tevere.
Di lui, oltre alle affettuose reminiscenze ed ai racconti preziosi di una giovinezza trascorsa tra le stradine storiche del quartiere San Lorenzo,
nell'immediato secondo dopoguerra, mi è rimasto un CD, il suo preferito, riposto e custodito
gelosamente in un cassetto: una raccolta di canzoni romanesche di artisti vari, un regalo di
Natale di tanti anni fa, insieme ai sonetti del Belli, di una datata edizione Oscar Mondadori.
Amava la sua Roma, a tal punto da celebrarne quasi ogni giorno l'immutata e gloriosa bellezza.
Di seguito, anche in sua memoria, vorrei umilmente omaggiare la città eterna, il caput mundi
che diede la vita ai suoi artisti, che la resero ancora più grande.
Una Roma ottocentesca, ieratica, fa da sfondo al microcosmo romano, quello plebeo s'intende,
un cumulo di diverse individualità chiassose, dipinte da Giuseppe Gioacchino Belli nei suoi
sonetti. L'intento di Belli è quello, come scrive egli stesso nell'Introduzione, di raccontare
l'identità morale, civile e religiosa del popolo romano, non di certo pio e casto, ma devoto e
superstizioso sì, a tratti grottesco, rozzo e arguto, partecipe di una città di sempre solenne
importanza. I popolani sono, come gli stornelli improvvisati in cui si rifugiavano, genuini, veraci,
ma soprattutto alimentati da un sentimentalismo passionale, dove il corpo diviene espressione
di una sana comicità. Il dialetto romanesco, adottato dal poeta, nell'epoca romantica veniva
fermamente osteggiato dalla borghesia, che lo reputava inferiore al linguaggio colto derivante
dal classicismo.
Nonostante ciò, Belli, complici gli studi folkloristici che stavano sempre più
fiorendo in un Paese finalmente cosciente della propria identità culturale e politica, diede voce
al volgo con un linguaggio pregno di implicanze popolari, spiegandone addirittura, sempre
nell'Introduzione, i suoni: "la b tra due vocali si raddoppia, come abbito, la bella. La b dopo la
m si cambia in cammio, immasciata, limmo".
Ogni quartiere di Roma, ogni vetusto scorcio trasteverino, lo ispirò, così come ogni cittadino del ceto medio, l'io narrante dei suoi sonetti: ne “Er Ricordo”, un uomo rammenta di quando il giorno che impiccarono Antonio Camardella, nel 1749, vide, insieme al padre, il "pazziente mastro Titta", ovvero il famoso boia Giambattista Bugatti, che operò fino al 1864. Immediata l'immagine del celebre Mastro Titta cinematografico del film di Luigi Magni (autorevole regista romano "affascinato dalle consuetudini e dagli umori antichi della sua città) “Nell'anno del Signore”, del 1969, il quale viene etichettato come "l'omo più moderno de Roma" da Leonida Montanari, nella scena della ghigliottina.
A quei tempi, partecipare ad un'esecuzione a Piazza del Popolo o nella piazzetta di Ponte
Sant'Angelo, per il popolino, era, oltre ad un divertimento, un mezzo educativo: i padri, dando
dei ceffoni ai figli, come racconta anche il protagonista del sonetto di Belli, imponevano loro di
seguire le regole, un monito per non subire la stessa triste fine. Nel sonetto “Li Spiriti” del 1832,
ecco venir fuori invece la Roma esoterica e scaramantica, abitata da entità soprannaturali: "E
cquesti so li spiriti folletti, /che pper lo ppiù se senteno d'inverno/ le notte longhe: e a cchi ffanno
dispetti/ e a cchi jje cricca fanno vince un terno".
Oltre alla credenza popolare che gli spiriti diano i numeri per il lotto, leggendo il sonetto mi viene in mente la pregevole pellicola di Pietrangeli, un gioiello poco conosciuto del 1961,“Fantasmi a Roma”, con un cast d'eccezione: Eduardo De Filippo, Marcello Mastroianni, Sandra Milo, Tino Buazzelli, Vittorio Gassman. I fantasmi dei rampolli della nobile famiglia romana dei Roviano, deceduti tragicamente, animano gli storici rioni con le loro vesti pallide ed anacronistiche, sfuggendo alla noia di una condizione perpetua con piccoli scherzi alle ignare persone o semplicemente passeggiando nell'oscurità, sospirando al ricordo dei piaceri della perduta esistenza mortale.
"Sta vecchiaccia cqua in faccia è er mi' spavento:/ nun fa antro che incanti e inciarmature,/ futtucchierie, stregonerie, fatture/ sortileggi e mmaggie, oggni momento", da “La Strega”, 1833. Sovente era costume del volgo esser convinto della presenza delle fattucchiere, che, tra le tante stregonerie, causavano convulsioni nei bambini; si usava così mettere, a protezione dei figli, una scopa alla finestra, tutte le sere. Piccola chicca: Belli, nel sonetto, cita anche Giuseppe Balsamo, detto il Cagliostro, alchimista e guaritore settecentesco creduto stregone, protagonista del romanzo omonimo di
A.Dumas, e l'arcaica formula di scongiuro delle streghe al demonio: "Sopr'acqua e sopra
vento, portami alla noce di Benevento!". L'ironia bonaria che contraddistingue la plebe di
Roma, si evince, tra i tanti, nel sonetto del 1832 “Li Sovrani Der Monno Vecchio”, scelto da me
per un motivo ben preciso. Nella prima strofa "C'era una vorta un Re cche ddar palazzo/
mannò ffora a li popoli st'editto: “Io so io, e vvoi nun zete un cazzo,/ sori vassalli bbuggiaroni, e
zzitto”, vengono ravvisati l'incipit tipico delle fiabe popolari e le identiche parole pronunciate
dal nostro Alberto Sordi ne “Il marchese del Grillo”, superbamente diretto da Monicelli. Ma non
solo, la simpatica scena della bambina strega ha un certo non so che del sonetto menzionato
precedentemente: "A Roma che vuoi fa? Che c'è...chiese, cupole, tetti, gatti, mendicanti,
streghe.[...] Poverina? Pussa via, è na stregaccia, che fa le fatture, fa. [...] Brutta malefica
stregaccia zozza infame! Brutta vecchiaccia pelata!".
Degno erede della satira oraziana di Belli, a cui aggiunse una comicità definita surrealista,
Ettore Petrolini, nato in via Giulia nel 1884, portò l'ironia romano-popolare nel teatro
novecentesco, riqualificandolo e portandolo a livelli altissimi. Ad oggi, egli rimane una pietra
miliare della cultura romanesca, un artista completo, inarrivabile, talentuoso, avanguardista.
Autore di commedie quali “Romani de Roma” e “Nerone”, una parodia, nel modus operandi
petroliniano, del potere imperiale, chiara allusione, nell'adattamento del 1930 di Alessandro
Blasetti, al regime fascista.
Qui riporto i versi del Belli, tratti dal sonetto “La crudertà de Nerone” del 1835, considerando che ai tempi qualunque uomo d'animo crudele veniva bollato come “un Nerone”: Levò a fforza er butirro a li Romani, / scannò la madre e ddu mojje reggine, /e ammazzò ttutti quanti li cristiani. / Poi bbrusciò Roma da Piazza de Sciarra/ ssino a Ssanta-Santòro, e svenò arfine / er maestro co ttutta la zzimarra>>. La zzimarra, secondoGiorgio Vigolo, fa pensare proprio al costume teatrale, da cui tutta l'inventiva del narratore popolare derivava.
Dotato di una straordinaria capacità interpretativa e creativa, Petrolini è stato altresì apprezzato ed emulato, soprattutto dal Maestro Gigi Proietti, per l'uso sapiente della mimica facciale, dei tempi lunghi tra una battuta e l'altra, che creano vuoti tali da esteriorizzare al meglio il senso dell'attesa, di un clima particolarmente emotivo, in cui si valorizza la gestualità quasi robotica.
Nel 1924, Petrolini scrisse “Gastone”, una commedia musicale rappresentata per la prima volta al Teatro Arena del Sole di Bologna, forse la sua più amata e di successo: «È la satira efferata al bell'attore/ stanco, affranto,/ compunto, vuoto senza orrore di se stesso. /Tante mi ripeton: "Sei elegante" /Bello, non ho niente nel cervello/Raro, io mi faccio pagar caro/ Specialmente alle pensione/ Gastone, Gastone». Fatuo, vacuo, squattrinato, dedito ai vizi, vestito di tutto punto con il frac, con la sua parlantina romanesca e la sublime imbecillità, Gastone maschera l'amara malinconia e la solitudine che lo accompagnano nel declino della sua carriera di attore d'avanspettacolo. Godibile è l'interpretazione di Gastone del romano Mario Scaccia, nello sceneggiato Rai per la regia di Maurizio Scaparro, la cui voce profonda dona però una sfumatura diversa, leggermente distante dalla macchietta caricaturale petroliniana.
Il tocco surreale e grottesco, dissacrante, il gusto dell'assurdo del teatro popolare, fecero sì che, come disse Gigi Proietti, suo affezionato discepolo, Petrolini fosse contattato dai futuristi, che desideravano, tra le tante cose, sovvertire il teatro borghese, colto.«Il puro umorismo futurista trionfa nell'arte assolutamente inventata di Petrolini. (...) Egli uccide coi suoi lazzi il non mai abbastanza ucciso chiaro di luna», scrissero Marinetti e Corra ne “L'Italia futurista”. Petrolini, ovviamente, rispose così: Marinetti è quella cosa/ che facendo il futurista/ogni sera fa provvista /di carciofi e di patat. (da “Stornelli maltusiani”).Nonostante si fosse apertamente burlato di Marinetti, con i futuristi iniziò un sodalizio che culminò in “Radioscopia di un duetto”, del 1918.
(Giacomo Balla, “Macchietta Romana”, 1898)
Per concludere, proprio recentemente mi sono imbattuta nello spettacolo “Caro Petrolini”, che Gigi Proietti mise in piedi nel 1983 con la sua compagnia teatrale, di cui tra l'altro consiglio assolutamente la visione, fortunatamente reperibile. Un eccelso compendio dell'opera petroliniana che spazia dalle macchiette più note alle opere teatrali, che il Maestro generosamente ci ha donato, dando vita, così, ad un ulteriore tassello all'interno dell' indescrivibile ed imperituro patrimonio artistico e culturale romanesco. Grazie, Gigi.
Canzoni belle e appassionate
Che Roma mia m'aricordate
Cantate solo pe' dispetto
Ma co' 'na smania dentro ar petto
Io nun ve canto a voce piena
Ma tutta l'anima è serena
E quanno er cielo se scolora
De me nessuna se 'nnamora
Marta D'Ambrosio
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