The End of the Fu***ing World: cosa ci ha insegnato la prima stagione della serie diventata cult.

Per alleviare le pene di un week-end in zona rossa/arancione (scusate lettori sardi) pubblichiamo un bel post dell'amica Marta. Cari Netflix addict , questo post è chiaramente per voi! 
Martina 

Non so dire, con esattezza, perché io abbia aspettato tanto prima di esternare il turbinio di emozioni e riflessioni che la serie TV inglese di pregevole qualità, “The End of the Fu***ing World”, dopo l'ennesima visione, mi ha lasciato. Forse da quell'amore giovane, fresco, così problematico, delicato ed imperfetto, sbocciato e poi cresciuto durante una rocambolesca avventura on the road, tinta dall'orrore della violenza, facevo fatica ad uscirne. La prima stagione di 8 episodi della black comedy acclamata dalla critica, dall'humour marcatamente british, uscì nell'ormai lontano 2017, mentre la seconda nel 2019. Entrambe si possono trovare a disposizione sulla piattaforma Netflix, e lo dico, soprattutto, per chi avesse voglia di rivederle. Oltre alla storia di Alyssa e James, interpretati rispettivamente da Jessica Barden ed Alex Lawther, ai veri cultori musicali non può sfuggire la colonna sonora, un autentico capolavoro, un viaggio, anch'esso, tra epoche lontane, che sottolinea, riempie meravigliosamente, molto spesso anacronisticamente, i momenti salienti delle due intere stagioni, facendo percepire allo spettatore persino i sentimenti dei protagonisti, come se li stesse vivendo insieme a loro, seduto su quella spiaggia.                                                     





Alyssa è una diciassettenne dall'aria sempre imbronciata, che da piccola ha dovuto subire l'abbandono del padre, alla cui figura sente di essere ancora particolarmente legata, anche a distanza di anni, portandosi dietro il peso dell'inadeguatezza, della paura di non essere stata abbastanza per non farlo andare via. Arriva così a credere che la perenne insofferenza nei confronti delle regole, delle persone che vivono vite, a detta sua, troppo normali, inquadrate, noiose, come quella, apparentemente impeccabile, borghese, impostale dalla madre, totalmente succube del nuovo marito, che vessa psicologicamente la figlia, facendola sentire non voluta all'interno della famiglia, l'abbia ereditata, insieme al germe della ribellione, della sfrontatezza, dall'evanescente padre biologico, rifugiandosi, per celare le proprie fragilità, e sentirsi libera, nuovamente innocente, nel ricordo di una figura paterna idealizzata, che ricollega all'infanzia. A tratti sgarbata, irriverente e provocatoria, Alyssa, in un momento di estrema frustrazione causatale dall'arido contesto che la circonda, con l'inedita “Angry Me” di Graham Coxon, storico chitarrista dei Blur, che esplode, come per dar voce ai suoi pensieri, si approccia nientemeno che al coetaneo solitario James, seduto al tavolo della mensa scolastica, mentre sta progettando un omicidio: <<Non dico che lui sia la soluzione, ma è qualcosa>>. Anche James, a modo suo, nasconde un trauma che intimamente lo ha segnato, ferito, a tal punto da essersi costruito inconsciamente, fin da bambino, una dura corazza, per proteggersi dal dolore, fatta di apatia, impassibilità. Incapace di provare qualsiasi tipo di emozione, convinto di essere uno psicopatico, James inizia una ricerca spasmodica per tornare nuovamente a “sentire”, cominciando dapprima col procurarsi inutilmente del male fisico, emblematica la mano nell'olio bollente della friggitrice, rimanendo, tra l'altro, ustionato a vita, poi con la glaciale e calcolata uccisione di piccoli animali, che non gli bastano più, fino ad arrivare a desiderare qualcosa di più grosso, un essere umano, e l'occasione agognata gli si presenta con Alyssa. L'incontro tra queste due anime fragili, sensibili, ingarbugliate, è ciò che dà il via al processo di trasformazione e guarigione, l'evento scatenante che accompagna gli avvenimenti di tutta la serie, dalla fase embrionale, a quella finale, finalmente evoluta. A differenza della graphic novel omonima del 2013, ideata dall'autore statunitense Charles Forsman, in cui la scenografia è spoglia, essenziale, quasi a voler rimarcare la sola importanza della personalità dei due giovani, l'ambientazione inglese della serie Netflix è il giusto e ricco mix tra gli anni '90 e quelli più recenti. Sulle note di “Superboy and Supergirl” del gruppo indie pop/rock Tullycraft, contenuto nell'album di debutto del 1995 “Old Traditions, New Standards”, avviene la prima svolta: James, ammaliato dall'idea di poter uccidere Alyssa in un luogo più nascosto e sicuro, senza fretta, asseconda la proposta della ragazza di scappare via, scatenando la prima, vera reazione nei confronti del padre inerme, che da anni covava dentro di sé, tirandogli improvvisamente un pugno, per poi rubargli la macchina. Nonostante l'aggressività del gesto, grazie alla vicinanza di Alyssa, seppur non ne sia ancora cosciente, ha  finalmente lo stimolo per esprimere prepotentemente la rabbia repressa; un piccolo passo per uscire da quel solido e spesso guscio protettivo che si è costruito. Guscio che continua inesorabilmente a sgretolarsi quando, armato di coltello, tentando di prenderla alla sprovvista, sente Alyssa piangere nel bagno della camera d'albergo dove si sono fermati per riposare. Con quelle lacrime amare di sconforto, mentre la delicata e sussurrata “Saturday Night” sempre di Coxon risuona in sottofondo, la follia di James sembra spegnersi. Desiste, e si lascia andare ad un momento di estrema tenerezza, cullato dalla voce carezzevole della cantautrice francese Soko, dallo stile unico, che intona la dolce“We Might Be Dead by Tomorrow” del 2012: Alyssa gli chiede di abbracciarla, e insieme dormiranno così, candidamente avvinghiati, trovando conforto l'uno nell'altra. <<Di solito io non avevo emozioni, per un bel po' era stata la mia specialità non sentire assolutamente niente. Non ci avevo nemmeno provato, ma proprio mai. Stando con Alyssa incominciavo a sentire qualcosa. Era lei che me lo faceva sentire. E non mi piaceva per niente>>.



Non poteva mancare il vecchio e adorato Hank Williams, iconico chitarrista hillbilly e malinconico cowboy vagabondo dello sconfinato sud dell'Alabama, piegato dalla crisi, dal fascino magnetico senza tempo, al cui ritmo della country blues “Settin' The Woods On Fire"  del 1952, Alyssa e James si ritrovano a danzare e dandosi il primo, effettivo, bacio, noncuranti  di ciò che sta realmente avvenendo nella casa che pensano possa essere un lussuoso rifugio momentaneo, ma che di lì a poco si trasforma in un incubo. La narrazione assume toni più cupi con l'omicidio del professore proprietario di quella casa, violentatore e seviziatore seriale, che aggredisce una dormiente Alyssa. James, per difenderla, freddamente lo colpisce al collo con quel coltello un tempo destinato a lei. E mentre il doo-wop tipicamente anni '50 di “Zu Zu” dei Bonnevilles accompagna la pulizia di ogni singola traccia e l'occultamento dell'arma del delitto, i due, una volta finito, ancora scioccati, decidono di camuffarsi, terrorizzati dal  poter essere riconosciuti e ricollegati al cadavere. Commettono un piccolo errore di distrazione, che pagheranno a caro prezzo nell'ultimo episodio. Qualcosa, in entrambi, però, sta cambiando. Alyssa rimugina tra sé, scrutando quel ragazzo pallido, gracile, dai grandi occhi azzurri, spenti. Lo riconosce capace di tanta efferatezza e inizia a domandarsi cosa potesse farsene, alla fine, di un coltello nella tasca: <<C'è qualcosa che non va in lui>>. Non riesce a scacciare l'immagine del sangue che sgorga copioso da quel corpo che giace esanime sul pavimento: <<Il mio cuore non regge>>. Appurato che James non possa più starle accanto, prende, impaurita, la decisione di separarsene e raggiungere il mitizzato padre da sola, l'unico che, crede, possa realmente proteggerla, lasciando James seduto, affranto, al tavolo di un desolato fast food, ignorando l'impatto emotivo devastante che ciò avrà su di lui. Dopo il distacco da Alyssa, il guscio non esiste più: <<Il silenzio può essere forte, assordante. Quando c'è silenzio, è difficile allontanare i pensieri, perché sono lì, e non puoi sbarazzartene. Io ero sempre stato bravo ad eliminarli, ma sapevo che, dopo quel giorno, non sarebbe stato più così facile>>. Il canto intenso, raffinato, intriso di pacata tristezza, di  Ricky Nelson, con la sua miglior versione di “Lonesome Town” del  1959, la città degli amanti dal cuore spezzato, già usata da Quentin Tarantino in “Pulp Fiction”, nella scena del frullato al “Jack Rabbit Slim's”, si fonde al pianto liberatorio e sofferente di James, tormentato da quel dolore tanto a lungo sopito. Finalmente consapevole della purezza di quel sentimento che aveva messo, così gradualmente, radici, spaventato dalla potenza che lo aveva invaso, arriva a pagare dei ragazzi affinché lo picchino, per coprire il dolore della perdita con altro dolore, quello fisico. E James, ora vulnerabile, arriva a comprendere un'ulteriore, lucida, verità: <<Non  ero io a proteggere Alyssa. Era lei che proteggeva me. Dopo aver ucciso un essere umano, avevo capito una cosa importante. Ero abbastanza sicuro di non essere uno psicopatico>>.




                                                               

La seducente e soave voce dell'attrice e cantautrice francese Françoise Hardy, simbolo della generazione Yéyé, che esegue la mesta “Voilà”, del 1967, non è che la squisita cornice al ricongiungimento dei due giovani protagonisti. <<Scusa se ti ho lasciato. Non ti lascerò di nuovo>>: Alyssa è irrimediabilmente e appassionatamente innamorata di James, a tal punto da accettarlo così com'è, demoni interiori inclusi.  In un vortice crescente di piccoli reati, i due adolescenti, inconsapevoli, sfrecciano nuovamente insieme, felici di essersi ritrovati, condividendo un destino ormai intrecciato, attraversando il Paese, verso la costa orientale, alimentati dal brivido della libertà. <<Col passare del tempo mi sentivo diverso, come se fossi nuovo. Era tornata per me, stavamo facendo qualcosa, andavamo in un posto, e mi sentivo bene>>.  I colori più caldi, luminosi, dal sapore un po' rétro, i paesaggi selvaggi, sono simili ad un road movie alla“Easy Rider” del 1969, per intenderci. L'inevitabile disillusione di Wyatt e Bill che, in sella alla celebre Harley-Davidson Panhead, per le polverose strade del Sud degli USA, cercano invano di rincorrere lo spensierato sogno hippie, andando incontro ad un tragico epilogo, è la stessa di Alyssa e James. Anche per loro finisce il sogno di poter cominciare un'esistenza migliore, rincorrendo vane speranze che vengono spazzate via dalla cruda realtà. Il padre di Alyssa non è l'uomo che può ospitarli e prendersi cura di loro, il magnanimo custode dell' oasi felice tanto desiderata. Privo di morale, pietas, valori e maturità, Leslie non rispecchia minimamente l'immagine idilliaca che la figlia gli aveva cucito addosso negli anni. Svegliatasi dal placido torpore in cui versava, Alyssa si rende conto che la risposta che cercava a tutte le sue domande è lì, davanti a lei, non suo padre. Aspettando l'alba adagiati sulla spiaggia, respirando la brezza del mare, James riesce a confidarsi, fidandosi ciecamente di lei, sul trauma vissuto da bambino: il senso di colpa per non essere riuscito ad impedire il suicidio della madre. Il ricordo del precoce e drammatico lutto riaffiora ed è straziante, ma i suoi occhi azzurri non sono più spenti, vuoti, il suo sorriso non più asettico: è un ragazzo coraggioso, brillante, pronto ad amare, colmo di ansia vitale. La decadenza di una dimensione privata fatta di solitudine, emarginazione e afflizione, si increspa in un fluire di viva emozione, che irrompe fulgido in quel grigiore ambiguo. Le debolezze di James diventano la forza di Alyssa, e viceversa. In un ultimo gesto d'amore, ricercati dalla polizia che sopraggiunge, cogliendoli di sorpresa, James si sacrifica per lei, addossandosi la colpa di tutto, nell'ultima disperata corsa, prima dello sparo finale, riacquistando quell'innocenza che pensava di non meritare. <<Ho appena compiuto diciott'anni e credo di capire cosa può significare una persona per un altro>>.

Mai brano, si può dire, fu più azzeccato per i titoli di coda di “The End of the World”, del 1963, di Julie London, cantante jazz dalla voce definita fumosa, morbida e sensuale: <<Perché il mio cuore continua a battere? Perché questi miei occhi piangono? Non sanno che è la fine del mondo? È finita quando hai detto addio >>.



 

Marta D'Ambrosio

        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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